Qui a IL MONDO DI EDU siamo sempre spasmodicamente curiosi di tastare la vitalità artistica dei gruppi storici del genere rock/metal. Dopo aver recensito track by track il controverso ( ma tutto sommato godibile) “Death Magnetic” dei Metallica ci spostiamo in terra d'Albione per il ritorno in pompa magna dei dinosauri del metal Iron Maiden. Le aspettative sono tante, l’emozione straripante ma passiamo a una disamina puntigliosa del disco:
“Satellite 15… The Final Frontier”:
Intro fantascientifico che lascia quasi presagire ad una mazzata metal in pieno viso. Ecco invece un esordio in pieno stile “Seventh Son of a Seventh Son” con i vocalizzi di Dickinson in primo piano e le chitarre ( invero snervanti e cacofoniche) in secondo. Iniziamo male.
“El Dorado”:
Non è un brutto pezzo. Si stampa subito in mente e ha cori vincenti. Ma quello che manca è il mordente. Dove sono le cavalcate rock/metal in stile Maiden? Dov’è il basso di Harris? Dove il senso di mistero e di fuga tipico delle loro song più famose? Si avverte invece una sorta di stanchezza esecutiva. A titolo di cronaca questo è uno dei pochi brani scritti da Dickinson in coppia con Harris che invece sarà accreditato in tutti i restanti brani dell’album. E’ successo anche per il disco precedente e sappiamo tutti com’è andata…
“Mother Of Mercy”:
Brano in divenire dove Dickinson sembra ancora poco convinto. Incedere lento ma almeno lo stile della band è riconoscibile. Noiose le soliste. Belle invece le armonie di chitarra. Così, così il coro centrale.
“Coming Home”:
L’inizio sembra preso da uno dei primi dischi degli In Flames. Poi mi accorgo che sono questi ultimi che scopiazzavano i Maiden. Ma dov’è la novità? Il bridge acustico è anonimo. Brano di nuovo lento e asfissiante. Tutto viene lasciato nella mani (ahinoi!) di Dickinson…il resto è noia.
“The Alchemist”:
Finalmente un po’ di ritmo! Tipico brano in stile Maiden e finalmente intravediamo Eddie che corre nella selva inglese con un’ascia in mano. Forse il miglior brano dell’album. Ma qualcosa manca lo stesso: la convinzione.
“Isle Of Avalon”
Lungo intro acustico ma con brio. Il resto si dipana tra invenzioni prog e tanta, tanta stanchezza.
“Starblind”
Potrebbe essere un outtake di “No Prayer For the Dying”. Ho detto tutto.
“The Talisman”
L’arpeggio iniziale è quasi scippato ai Tiamat di “Kaleidoscope” (Wildhoney – 1994). Per il resto c’è un fascino ancestrale nella prima parte che lascia il posto alla solita cavalcata, se non fosse che il cavallo sembra vecchio e stanco.
“The Man Who Would Be King”:
Di nuovo le atmosfere di “The Seventh Son of a Seventh Son”. Un disco che sembra ossessionare Harris da almeno tre album a questa parte. Inutile sottolineare che qualcosa non va. Errare è umano, perseverare è diabolico.
“When The Wild Wind Blows”:
I Maiden che fanno il verso ai Jethro Tull. Poi all’improvviso tutto cambia ed è sconforto assoluto.
Confesso che questo è un album che non avrei voluto recensire sul blog. Forse è la prima vera stroncatura che scrivo da quanto esiste IL MONDO DI EDU. Se gli Iron Maiden avevano dato segni di ripresa con il buon “Dance of Death”, gli album seguenti evidenziano una "stanchezza" (il tema portante della recensione) compositiva allarmante e una scarsa attitudine nel saper arrangiare brani in linea con la storia del gruppo. Da amante ultra ventennale della band britannica mi viene un po’ di magone mentre scrivo queste righe. Ma se anche un'ottima rivista del settore come “Decibe Magazine” parla di “ultima frontiera” per la carriera del combo di Harris & soci, significa che la cosa è ormai evidente per tutti. Lunga vita ai Maiden ma basta dischi di pessima qualità come questo “The Final Frontier”. Meglio solo i tour a questo punto…
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