venerdì 22 aprile 2011

NEL VAMPIRO SI CONCENTRANO LE INQUIETUDINI E LE DOMANDE ULTIME DELL’UOMO: INTERVISTA A RICCARDO D’ANNA


Dopo aver recensito positivamente il romanzo Gargoyle “La Figura di Cera” una chiacchierata con Riccardo D’Anna è quantomeno d’obbligo.
Augurandovi buona lettura e una felice Pasqua, comunico che il prossimo post sul IL MONDO DI EDU è previsto per Martedì 26 Aprile.
A presto.


Il libro di Simon Raven “Il Morso sul collo” non era solo un romanzo sull’archetipo gotico del vampiro ma una vera e propria celebrazione della libertà personale in senso ampio e allo stesso tempo un appello alla distruzione delle asfissianti sovrastrutture della società moderna (famiglia, carriera, lavoro, gerarchie). Anche il suo romanzo sembra avere una peculiarità “altra” rispetto al tema del vampiro. Me la può spiegare?
Sono d'accordo. Il grande, indimenticato, Gesualdo Bufalino scriveva, press'a poco, se una lezione ho imparato riguardo a questa cosa strana che è la vita, è che conviene viverla "come se…": come se fossero reali tutte le larve che ci siamo inventati (amore, amicizia, Dio, gloria, famiglia…) di cui invece si maschera il niente. Il vampiro è un contenitore con molte sfaccettature, è un pensiero debole che spinge verso la nullificazione cui possiamo opporre solo le nostre armi spuntate (la fede nella ragione non tutto risolve). A differenza di Raven, a me interessava attraversare il tema della paura e dell'attesa nel segno del cupio dissolvi…

“La figura di Cera” è un romanzo totalmente autonomo rispetto a quello di Raven. Ne utilizza alcuni personaggi ma crea un’ambientazione storica e fantastica praticamente antitetica. Una scelta conscia o inconscia?
Entrambe le cose: in parte vi è consapevolezza, disegno cosciente, ma in parte bisogna seguire l'istinto senza porsi troppe domande. Andare dove il romanzo ti conduce. Forse estremizzando un po' si potrebbe affermare che ogni romanzo, in fondo, nel suo compiersi, è il passaggio da un cammino senza meta a una meta senza cammino.

Mi piacerebbe conoscere il suo parere sulla figura gotica del Vampiro tra passato e presente. E soprattutto come si interseca nel suo romanzo?
Ognuno di noi ha perso una parte della propria vita, e ha nascosto nel buio ciò che è rimasto. Credo che la figura del vampiro, nella sua essenza liminare (dunque portatrice di una trasformazione, di un passaggio, di un contagio…) sia una delle icone del mondo moderno. Il fascino che emana deriva, naturalmente, da un'ambiguità tipologica: nel vampiro si concentrano, senza che possano essere risolte, le inquietudini e le domande ultime dell'uomo. Si può vincere il potere del vampiro – sfuggire in altri termini a un destino di solitudine e di morte – solo con un atto di fede, con il salto nel buio kierkegaardiano. Ne La figura di cera mi interessava giocare una partita in absentia: evocare più che descrivere…

Gargoyle Books è una casa editrice totalmente dedicata all’Horror tout court. Qual è la sua visione sull’universo della letteratura di genere in Italia? Pregi e difetti.
Si ha ormai la sensazione, scrive Silvia Balestra, che «le buone idee, la qualità delle intuizioni, l'elaborazione teorica e la cura artigianale del lavoro non bastino più a far emergere un testo […] né a garantirgli la minima possibilità di durevolezza».
L'universo della letteratura di genere non sfugge al più ampio contesto in cui viviamo. L'Italia è culturalmente periferica, la quantità esorbitante di volumi dati alle stampe (in Italia si pubblicano una media di circa 40 romanzi al giorno…) affossa la qualità, la critica "militante" (quella, cioè, che orienta il lettore forgiando giudizi di valore a caldo…) è ininfluente (grazie anche alle politiche recensorie dei quotidiani…), l'editoria è sempre più prigioniera del computo del ragioniere in merito a guadagni e ricavi, il lettore orientato esclusivamente da pubblicità e classifiche, i premi governati da consorterie… (è il premio a nobilitare lo scrittore o lo scrittore arcinoto e arcivenduto che nobilita il premio?, vien da chiedersi a volte)
Si può pensare l'universo editoriale come un delicato ecosistema: se vi si immettono indiscriminatamente dei predatori (vedi best-seller e pile di successi annunciati nei megastore), è chiaro che la letteratura di qualità sopravviverà, se sopravviverà, in spazi sempre più ridotti e meno accoglienti.
Non credo a giudizi tassonomici in letteratura (leggo un determinato libro perché appartiene a un determinato genere…): mi interessa leggere un libro che mi lasci qualcosa, che mi offra una visione del mondo e mi aiuti a comprendere…

Scrive Gianfranco Manfredi in una mia recente intervista:”Uno scrittore deve avere come raffronto anche i morti, solo così può tentare di parlare ai contemporanei”. Vorrei che commentasse questa frase alla luce delle sua dichiarate citazioni di autori del (nostro) passato letterario e non solo.
Citazione per citazione: «Un libro non si rivolge ai vivi, meno ancora alle generazioni a venire; vuol consolare i morti, render loro giustizia, accordar loro una dignità, completarne la vita: la folla dei morti che precipita ovunque, ci circonda, si accalca, e talvolta entra in noi, colmandoci di un chiacchierio che cerca le parole giuste e una cadenza perché infine si capisca quello che avevano da dire. Scrivere è seguire i loro passi senza traccia, dar loro la parola, diventare il loro scrivano. I morti ne hanno bisogno, loro che si smarriscono senza fine in un sonno più vasto della notte»

Nelle sue certosine ricerche storiche sui luoghi, gli ambienti, i problemi sociali, la cultura, la politica del passato quanto la sua sensibilità di artista indefettibilmente “moderno” influisce sulle sue storie? È possibile parlare del passato astraendosi totalmente dal presente?
Qualche anno fa capitammo in un albergo che aveva ancora i vecchi modelli di telefono nelle camere (quelli per intenderci con i numeri e il quadrante circolare). Mio figlio, che avrà avuto sei o sette anni all'epoca, voleva fare una chiamata ma restava paralizzato davanti all'apparecchio perché non sapeva come funzionasse, non avendone mai visto uno simile. Anche un semplice oggetto, di cui però abbiamo fatto l'esperienza, muta radicalmente la nostra sensibilità e, conseguentemente, il nostro immaginario.
In sintesi: nella domanda c'è già la risposta. Per quanto si possa aderire a un'epoca passata, afferrarne le molle più segrete, vi è sempre un cono d'ombra destinato a rimanere dato proprio dalla posizione, quindi dalla prospettiva da cui guardiamo i fatti. Credo che la capacità dello scrittore non risieda tanto nel "fotografare" la realtà, quanto forse nel proiettare il dato effimero del quotidiano sullo schermo della propria sensibilità per renderlo verisimile a chi legge.

Ultima curiosità: mi piacerebbe conoscere le sue ultime letture in modo da poterle segnalare ai lettori del blog. Ha narrativa di genere da segnalare ai più curiosi di noi?
Come ho già accennato non sono incline alle classificazioni e agli steccati, senza per questo voler togliere nulla agli appassionati di genere. Amo libri anche radicalmente diversi fra loro: penso all'algida ferocia di Jack Ketchum (La ragazza della porta accanto) e, per converso, all’ironia e alla delicatezza di tocco di Tonino Benacquista (Tre quadrati rossi su fondo nero). Di Gargoyle ho molto amato lo Sherlock Holmes contro Dracula, per la capacità di coniugare – per via di filologia affettiva –documentazione rigorosa con felicità di invenzione. Ma la stessa casa editrice andrebbe lodata per la meritoria opera di divulgazione saggistica sul genere (The Dark Screen e I Dioscuri della notte non solo riempiono un vuoto ma sono due perle in tal senso…). Così come sono parimenti meritorie alcune operazioni di recupero, nel tirar giù alcuni autori obliati da scaffali polverosi (penso alla riproposta di Eric Ambler da parte di Adelphi e prim'ancora di Simenon, giallista e non solo).
Dal mio punto di vista, rimango colpito spesso da quei libri che stricto sensu non possono definirsi libri di genere pur usufruendo di alcuni stereotipi o ricreando specifiche atmosfere: romanzi, cioè, che possono attraversare determinati territori con la forza della scrittura e l'eleganza di stile di un romanzo di idee. Penso a casi, anche qui, diversissimi fra loro: da Hotel Iris di Yoko Ogawa (che affonda nelle logiche oscure di una relazione sado-masochistica) a Philippe Claudel (Le anime grigie; Il rapporto), capace di scandagliare i risvolti più riposti del male. Ma penso anche alla desertificazione di un mondo post-nucleare in La strada di Cormac McCarthy, al merletto gotico di Dio di illusioni di Donna Tartt, o alla falsa levità di un gioiello come Al pianoforte di Jean Echenoz, un libro che si legge d'un fiato capace di cambiare segno nei pochi capoversi conclusivi: l'inferno me lo immagino così…

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