Di solito non mi faccio travolgere facilmente dalla musica di una band emergente, mantenendo invece un atteggiamento alquanto distaccato e iper-critico, ma "Lothlórien" (2006), prima fatica discografica dei salernitani Lothlórien, è qualcosa che tocca le corde più nascoste dell’animo umano trasportandoti per incanto in una dimensione fatta di sogno e di veglia.
Il riferimento nel nome della band al capolavoro dello scrittore J. R. Tolkien “ IL Signore degli Anelli” ne è una prova ulteriore.
La musica dei nostri è dolce, malinconica, onirica, fantasiosa, con un flavour anni 70 che la pone in antitesi con tutto quello che c’è oggi in giro nella scena rock italiana.
Questi ragazzi hanno le idee chiare, hanno carattere.
Il pezzo di apertura “Come le foglie” ( ormai penso un classico della band dal vivo) subito si annuncia con un riff di chitarra ispirato direttamente dalle migliori rock band dei seventies. Ma quando sei convinto che il pezzo seguirà un percorso ben preciso esso si trasforma in pura malinconia, a tratti catartica nel testo, dove il singer Lucio Auciello ci trasporta in un viaggio ricco di suggestioni attraverso un canto sofferto e intimista che mi ha riportato alla mente lo sfortunato cantautore sassuolese Pierangelo Bertoli.
L’atmosfera diventa tesa secondo dopo secondo come se volesse trasfigurare all’improvviso il dolore in rabbia per poi riportarlo nuovamente verso lidi di pace e conforto dove il sussurro flebile di Lucio sembra quasi invitarci ad un sospirato oblio dei sensi.
“Il colore dell’iride”, altra poesia in musica, subito si schiude con un arpeggio soffuso dal sapore ancestrale rotto però improvvisamente da un refrein di chitarra che immediatamente si stampa nella mente senza più abbandonarla.
Lucio stavolta sembra quasi recitare le parole di questa canzone struggente anche se il lavoro di tutta la band in fase di esecuzione e arrangiamento è di notevole qualità ( ottimo il lavoro corale di tutta la band).
Azzeccate e mai noiose o ridondanti sono le soliste di chitarra ( opera in gran parte di Giuseppe Frana ex prima chitarra ormai ) che dimostrano per chi ancora non lo avesse capito, il grande gusto delle melodia da parte del gruppo.
Un timido organo ad opera di Ilario d’amato ci trasporta verso la traccia seguente intitolata “L’uomo delle stelle” ( che abbiano pensato all’omonimo film di Giuseppe Tornatore?) dove la melodia acustica si trasforma in elettricità e feeling con l’organo che segue a ruota tutti gli altri strumenti; ed è uno spasmodico rincorrersi di suoni ed emozioni differenti con le chitarre sempre a farla da padrone.
Ho notato molteplici influenze ( certi Timoria, certi Afterhours, i Pearl Jam più duri e diretti…) ma la personalità dei nostri è fuori discussione.
Di sicuro il pezzo più tecnico e cangiante del cd.
“Il Preludio“ ci riporta sul binario della malinconia e del rimpianto. L’arpeggio iniziale mi ha riportato alla mente sia il prog/ folk anni 70 dei Camel sia influenze molto più attuali come quella dei prog metallers Opeth. Ilario D’amato dipinge scenari di depressivi paesaggi autunnali con un suono di pianoforte soffuso e a tratti sofferente.
Le chitarre, però, sono ancora in agguato irrobustendo il pezzo e accentuando le dolorose rivelazioni ( forse personali!?!) del singer.
Anche in questo brano la parte centrale è caratterizzata da un virtuosismo chitarristico fuori dal comune che lentamente lascia il posto ad un preludio ( appunto) fatto ancora di oblio e forse di sonno ristoratore.
E’ da precisare, infine l’ottima e tecnicissima prova generale della sezione ritmica composta da Mario Villani e Gennaro Galise.
Una rinascita dei sensi intorpiditi e stanchi.
Un viaggio nei ricordi e nella poesia.
La riscoperta di un “giardino dei fiori”(Titolo del primo demo della band) che dovrebbe sbocciare nell’animo di ogni uomo o donna.
Questo dovrebbe essere la musica.
Questi sono i Lothlórien.
Il riferimento nel nome della band al capolavoro dello scrittore J. R. Tolkien “ IL Signore degli Anelli” ne è una prova ulteriore.
La musica dei nostri è dolce, malinconica, onirica, fantasiosa, con un flavour anni 70 che la pone in antitesi con tutto quello che c’è oggi in giro nella scena rock italiana.
Questi ragazzi hanno le idee chiare, hanno carattere.
Il pezzo di apertura “Come le foglie” ( ormai penso un classico della band dal vivo) subito si annuncia con un riff di chitarra ispirato direttamente dalle migliori rock band dei seventies. Ma quando sei convinto che il pezzo seguirà un percorso ben preciso esso si trasforma in pura malinconia, a tratti catartica nel testo, dove il singer Lucio Auciello ci trasporta in un viaggio ricco di suggestioni attraverso un canto sofferto e intimista che mi ha riportato alla mente lo sfortunato cantautore sassuolese Pierangelo Bertoli.
L’atmosfera diventa tesa secondo dopo secondo come se volesse trasfigurare all’improvviso il dolore in rabbia per poi riportarlo nuovamente verso lidi di pace e conforto dove il sussurro flebile di Lucio sembra quasi invitarci ad un sospirato oblio dei sensi.
“Il colore dell’iride”, altra poesia in musica, subito si schiude con un arpeggio soffuso dal sapore ancestrale rotto però improvvisamente da un refrein di chitarra che immediatamente si stampa nella mente senza più abbandonarla.
Lucio stavolta sembra quasi recitare le parole di questa canzone struggente anche se il lavoro di tutta la band in fase di esecuzione e arrangiamento è di notevole qualità ( ottimo il lavoro corale di tutta la band).
Azzeccate e mai noiose o ridondanti sono le soliste di chitarra ( opera in gran parte di Giuseppe Frana ex prima chitarra ormai ) che dimostrano per chi ancora non lo avesse capito, il grande gusto delle melodia da parte del gruppo.
Un timido organo ad opera di Ilario d’amato ci trasporta verso la traccia seguente intitolata “L’uomo delle stelle” ( che abbiano pensato all’omonimo film di Giuseppe Tornatore?) dove la melodia acustica si trasforma in elettricità e feeling con l’organo che segue a ruota tutti gli altri strumenti; ed è uno spasmodico rincorrersi di suoni ed emozioni differenti con le chitarre sempre a farla da padrone.
Ho notato molteplici influenze ( certi Timoria, certi Afterhours, i Pearl Jam più duri e diretti…) ma la personalità dei nostri è fuori discussione.
Di sicuro il pezzo più tecnico e cangiante del cd.
“Il Preludio“ ci riporta sul binario della malinconia e del rimpianto. L’arpeggio iniziale mi ha riportato alla mente sia il prog/ folk anni 70 dei Camel sia influenze molto più attuali come quella dei prog metallers Opeth. Ilario D’amato dipinge scenari di depressivi paesaggi autunnali con un suono di pianoforte soffuso e a tratti sofferente.
Le chitarre, però, sono ancora in agguato irrobustendo il pezzo e accentuando le dolorose rivelazioni ( forse personali!?!) del singer.
Anche in questo brano la parte centrale è caratterizzata da un virtuosismo chitarristico fuori dal comune che lentamente lascia il posto ad un preludio ( appunto) fatto ancora di oblio e forse di sonno ristoratore.
E’ da precisare, infine l’ottima e tecnicissima prova generale della sezione ritmica composta da Mario Villani e Gennaro Galise.
Una rinascita dei sensi intorpiditi e stanchi.
Un viaggio nei ricordi e nella poesia.
La riscoperta di un “giardino dei fiori”(Titolo del primo demo della band) che dovrebbe sbocciare nell’animo di ogni uomo o donna.
Questo dovrebbe essere la musica.
Questi sono i Lothlórien.
Contatti:
Nessun commento:
Posta un commento